martedì 10 maggio 2016

Un mese da Pyongyang

È passato un mese, e mi sembra un’eternità. 

E di quel viaggio mi resta il ricordo di un mucchio di risate, di un pulmino sgangherato, di mani tese a salutare, di cibo in ciotole dorate, di donne che sembrano danzare nei vestiti colorati, di biciclette nella nebbia, di canzoni a squarciagola, di un vento freddo sulle montagne, di notti buie senza stelle, di sonni scomodi e brevi, di un’atmosfera da gita delle medie, piena di elettricità, di noi che stiamo insieme senza telefono, senza email, senza connessione e per questo davvero uniti, vicini, veri, vivi di una vita immediata, entusiasta, senza filtri, come eravamo quando avevamo quindici anni.

Mi resta il ricordo di una sensazione di unicità dentro lo stadio May Day, in mezzo a mille altre persone, di libertà mentre corro e i bambini mi tendono le mani, del caldo di una giornata di sole, della stanchezza nelle gambe, di alberi fioriti lungo la strada, di un crampo che sento arrivare ma che non voglio subire, della fatica che sembra non finire mai ma che poi finisce sulla linea dell’arrivo.

E mi restano le foto, un sacco di foto, perché la mia memoria ha dei buchi, alle volte, e sono convinta che fermare ogni attimo in uno scatto sia un modo bellissimo per non perdere le immagini, e anche i pensieri e le sensazioni e le emozioni legate a un momento.


È quasi l’alba, e fuori una nebbia umida copre un sole ancora arancione. Fa freddo e tutto sembra grigio, e ho una stanchezza addosso che martella nelle tempie. 
Per arrivare a Panmunjom, la zona demilitarizzata di due chilometri quadrati al confine con la Corea del Sud, ci vogliono tre ore.
Dopo una notte insonne, anch’io mi addormento, di un sonno scomodo, scosso di buche. Quando all’improvviso mi sveglio, il paesaggio mi rapisce.  Stiamo attraversando una campagna bellissima e seria, a tratti triste, una terra rigata dagli aratri trainati da buoi, punteggiata di alberi fioriti e di braccianti piegati dalla fatica e da un vento freddo e insistente che vorrebbe portarsi via tutto, anche i pensieri, anche i sogni, trattenuti con ostinazione dalle stentate barriere di paglia con cui si proteggono i raccolti. Sulla strada dritta e deserta sbucano contadini che camminano, improvvisi e soli come i cespugli gialli di forsizia, sembra che vengano dal nulla e che verso il nulla vadano con rassegnata tranquillità. 
Eppure ho l’impressione che ci sia della poesia nel paesaggio spoglio, nella lunghezza dell’orizzonte, nell’alternarsi di pianura e montagna, nell’improvviso apparire di un gregge di pecore e di un ragazzino con un bastone, nelle strade bianche e dritte che spariscono nella nebbia, nello scorrere lento di un fiume o nel pedalare stanco delle biciclette impolverate.

Una poesia che fatica a cancellarsi anche quando ci mettono in fila e pretendono serietà e contegno mentre oltrepassiamo il muro che delimita la zona di confine.
I soldati sono immobili nelle loro divise verdi, rigidi, dritti come fusi, le mostrine gialle e rosse, gli elmetti con la stella rossa al centro, disposti a quadrato appena al limite di un muretto basso oltre il quale inizia la Corea del sud.
Anche oltre il muretto, poco più alto di un marciapiede, ci sono dei soldati. Hanno divise blu notte con delle righe bianche sulle maniche e sui pantaloni, bottoni dorati che brillano al sole, elmetti blu con una scritta bianca, occhiali da sole. Stanno anche loro immobili, le gambe larghe, le braccia lungo i fianchi. Ma sembrano meno nervosi, meno rigidi. 
Altri soldati in tuta mimetica si avvicinano, parlottano, poi due di loro si mettono in posa per una foto, uno appoggia il braccio sulla spalla dell’altro. Posso immaginare le loro battute, i loro sorrisi, anche se da qui, da lontano, non si sente niente, solo attraverso il lungo obiettivo della mia macchina fotografica posso vedere il sorriso del soldato, non i suoi occhi coperti dal berretto, gli occhiali da sole appoggiati alla tesa, la cover del cellulare con la bandiera americana.

Ecco, penso, sta tutta qui la differenza.
Sta in quel cellulare, che in Corea del Nord quasi nessuno può permettersi. Sta nei sorrisi dei soldati, nei gesti di amicizia cameratesca, negli occhiali da sole che schermano gli sguardi, nell’eleganza di quelle divise blu che esaltano la tristezza di queste, verde marcio, verde spento, e non posso fare a meno di associare quei colori alla vita delle persone, ai loro gesti, ai loro pensieri.

Il ritorno è immerso nel silenzio addormentato pesante di stanchezza, ma io non riesco a dormire. Guardo il sole giallo, poi arancione, sparire dietro l’orizzonte liscio, il cielo diventare nero a poco a poco. Le torce dei contadini che tornano dai campi sono come lucciole ai bordi della strada.

Pyongyang è vasta, di un’ampiezza esagerata e vuota (vuota di macchine, di persone, di animali, di cartelloni), quasi surreale. 
Non so cosa mi aspettavo, a dire il vero, ma quello che ho visto mi sembra, nel ricordo, ricoperto di una patina grigia, come se non esistessero i colori. 
Grattacieli, palazzi, monumenti, strade, perfino i giardini sembrano sbiaditi, come in una vecchia foto in bianco e nero.
Non ci sono vetrine, luci, pubblicità, anche la propaganda è limitata ad alcune rare strutture di cemento costruite apposta per mostrare visi felici di bambini, soldati armati, paesaggi idilliaci di montagna, sorrisi di denti bianchissimi sulle facce bonarie dell’eterno presidente.

Le mastodontiche figure di Kim Il Sung e Kim Jon Il stanno immobili nel bronzo denso sulla collina Mansu, ai loro piedi mazzi di fiori colorati lasciati da donne che ruotano nei vestiti tradizionali come bambole ballerine.
Anche noi facciamo lo stesso, compriamo i fiori e li portiamo alle statue, facciamo l’inchino e la foto di rito. 
Una bambina sta disegnando seduta sulla pietra di un giardinetto, sembra lei stessa la figura di un quadro.

L’enorme museo della guerra è un monumento all’ostentazione di forza bellica di un tempo passato che sembra volersi ostinatamente incistare nel presente e che risulta tratti sconcertante, a volte quasi ridicola, talora inquietante. Vecchi carrarmati, elicotteri, camionette sequestrati ai nemici, perfino una nave ormeggiata nel canale sono i cimeli di una guerra che sembra allungare ancora la sua ombra. 

E poi la colonna di Juche, 170 metri di pietra, l’arco della riunificazione, il monumento al partito dei lavoratori, l’enorme hotel Ryugyong, l’arco di trionfo, tutti monumenti che con il loro grigiore e con la loro incombenza contribuiscono ad accrescere un senso di pesantezza incolore.
Eppure il cielo è azzurro, l’erba nei giardini è verde, gli alberi sono fioriti di fiori rosa, i bambini hanno cappellini rossi e bianchi e blu e le bambine fiocchi nei capelli e sui vestiti.

È passato un mese, ma sembra un’eternità.
E sarà stato perché eravamo sempre in gruppo, sempre con le guide come fossero gli insegnanti, con l’autista del bus che è diventato uno di noi, ma noi adulti siamo tornati ragazzini, carichi di quella specie di elettricità, dell’irrequietezza emozionante e piena di aspettative e di stupore.

E mi restano, di quel viaggio, un pettorale attaccato al frigo, una calamita a forma di bambola e una bandiera con una stella rossa, che ogni tanto guardo cercando di rivivere l’emozione di quindicenne.