sabato 29 settembre 2012

Welcome parents

Sono arrivati i WonderParents.
Sono arrivati a due giorni dalla festa di mezzo autunno, quando si mangiano i dolcetti della luna che riempiono tutti i negozi di pacchettini colorati, e a tre giorni dalla festa nazionale, quando tutte le scuole sono chiuse e si fa festa e si guardano i fuochi d'artificio e si sentono i botti per una settimana intera.
Sono arrivati in un pomeriggio ventoso dopo dodici ore dentro un aereo pieno di cinesi e un'ora dentro un taxi guidato da un tassista pazzo lungo strade sopraelevate tra la campagna e i grattacieli.
Sono arrivati con due sole valigie che hanno aperto, in mezzo a tre bambine saltellanti, sul pavimento del soggiorno, e che sembravano la borsa di Mary Poppins.
Da quelle valigie hanno tirato fuori regali per le bambine, pensieri di nostalgia e doni per quel giorno speciale passato come un giorno qualunque. In un turbinio di carte e pacchetti e fiocchi sono arrivate due bottiglie di olio, un chilo (un chilo!) di cioccolatini, due bottiglie di grappa, tre quaderni da colorare, tre orsi di cioccolato con tre cuoricini al collo, due bottiglie di vino, tre cuori di zucchero blu, un sacchetto di medicine, tre libri, uno shampoo speciale e una crema speciale per i capelli nuovi della Wonder, un latte idratante profumato buonissimo, tre braccialetti, un completo da bici per l'inverno, tre buste con dentro tre lettere commoventi, quella crema là che toglie le righe e anche i quadretti, una sottoveste del colore nuovo dell'inverno e una meravigliosa acquamarina dentro un sacchettino di seta.

E adesso, se non vedete la Wonder, per un po', non preoccupatevi. C'è, e vi pensa, eh. 
 
È solo che, per un po', sarà travolta dal sonno, dalle feste, dai racconti, dai capricci, dalle guide turistiche, dai pranzi da preparare, dalle gite da organizzare, e sarà impegnata a tenere ben saldo tra le mani un filo sottile di pensieri ancorato a un grumo di nostalgia portato in alto dal vento.

giovedì 27 settembre 2012

Pensieri all'alba

Avevo una ducati.
Il fatto è che volevo la moto da quando avevo quattordici anni. Tutti avevano il motorino, ma io volevo la moto. Il Cagiva. La chiamavo così, il Cagiva, per me era maschile. Mai piaciuto dire la Cagiva. I miei non ci sentivano, ovviamente. Non mi avrebbero mai preso nemmeno il motorino, la verità. Io mi ero messa in testa che me la sarei comprata, e ho cominciato a mettere i soldi da parte. Ho comprato il casco. I miei non hanno fatto una piega. Mica scemi. Lo sapevano che non era facile comprare una moto con la mancia della domenica.
Comunque poi ho usato il motorino di Marco, un ragazzo a cui piacevo, così me lo prestava volentieri. Le prime volte saliva anche lui con me, seduto dietro, e teneva le sue mani sulle mie, attaccate alle manopole del manubrio, per insegnarmi. Sentivo il suo corpo vicinissimo, il suo respiro vicino all'orecchio. A quattordici anni sono emozioni. Comunque a me piaceva un altro, che ovviamente non mi si filava per niente.

La prima volta che sono caduta ero sul motorino di Marco. Mi son fatta un buco nel ginocchio, che c'ho messo un po' a inventarmi una scusa plausibile per i miei, e comunque mia mamma non c'ha creduto neanche dieci secondi. Ha solo fatto finta. È incredibile quante cose ha fatto finta di credere, la mia mamma. Ancora adesso sono convinta che sappia delle verità su di me che non le ho mai raccontato. Le ha intuite. Comunque.

La seconda volta che sono caduta ero in Grecia, e avrei fatto fatica a inventarmi una scusa. Dodici punti son difficili da giustificare. La mamma mi ha regalato i fuseaux. Si chiamavano così. Poi si son chiamati pantacollant, poi leggins. Ma son sempre la stessa cosa. Diceva che non avrei più potuto mettere la minigonna, con quella cicatrice lì proprio sopra il ginocchio. Che poi non la mettevo mai la minigonna. E comunque adesso la metto, che qui in Cina l'unica cosa che puoi mostrare con una certa disinvoltura sono le gambe. Non le spalle, non la schiena, non il décolleté. Le gambe. Minigonne inguinali, qui. Che una cicatrice sopra il ginocchio fa anche un po' vita vissuta.

In moto ci andavo con gli amici, a volte di nascosto. Facevamo delle gite sul lago, in gruppi enormi, e il bello per me era proprio andare fino là. Poi vabbè, si faceva il bagno, si facevano giochi scemi, le grigliate sulla spiaggia, ma a me piaceva andare e tornare, sulla moto di qualcuno.
Si andava anche alle cascate di Misurina, su per strade tortuose e umide, con la vespa, il cuore di panna. Oh, nessuno che me la facesse guidare, 'sta moto. Malfidati.
Alla fine mi sono comprata un motorino. Esigenze di servizio. Mi ci sono divertita un sacco, col mio honda sky 50 comprato usato. Sentivo l'aria addosso, passavo tra le macchine, ci portavo gli amici dietro che ci stavano comodi, ché quel motorino là aveva la sella lunga, mica come il Ciao di Marco.

La terza volta che sono caduta non mi son fatta niente. Ho tirato su il motorino, che pure lui era incolume, e son ripartita. Capita, sul pavé bagnato, è facile.

La quarta volta guidavo la ducati. Era bellissima, nera, opaca, con il codino rialzato e le frecce piccole. Ci avevo messo un adesivo di Margot, la fidanzata di Lupin, e mi sentivo come lei, una gran gnocca. 
Ognuno ha le proprie fantasie, eh.
Il fatto è che quella ducati lì c'ha uno sterzo che ti frega. Che tu pensi di poterla tenere su e invece no. Comunque ero quasi ferma, mi son fatta niente.
Che a me piacevano le curve. Non sono mai stata amante della velocità, spararsi su un rettilineo per vedere fino a dove tira il motore, sentire il rumore urlato. Magari un po' una sgasatina in galleria, giusto per l'effetto sonoro. Ma sai che bello in montagna, o sulle colline, o al mare, in Francia, la curiosità, la sorpresa che riservano le curve. Un po' di piega, poco, eh, che non son capace, ma quel tanto che basta a far girare l'adrenalina, perché sei tu che decidi. Mica uguale, stare seduti dietro.

La quinta volta è stata da pivellina, sulla ghiaia, col freno davanti. Che un po' la ducati s'è infortunata, s'è svirgolata il manubrio. Che non l'ho neanche sfiorato, quello che m'ha tagliato la strada, e quindi affari miei. Si son fermati due col chopper a vedere come stavo, e siamo stati seduti sul muretto per un po', finché m'è passato lo spavento.

E niente, mi sono svegliata stamattina, che erano le cinque e quarantadue, con questo pensiero che non c'ho più la ducati. 
Che è stato il regalo più meraviglioso che abbia mai ricevuto. 
Che lì per lì, quand'è nata il Gatto, ho pensato che fosse la cosa giusta da fare, venderla. 
Che con due bambine quando ci andavo più, in moto.
Che era vero. 
Però stamattina, ecco, chissà perché m'è tornata in mente, però un po' mi dispiaceva, la verità.

lunedì 24 settembre 2012

Senza parole

La mia amica Tamao è giapponese.
Vive in un appartamento piccolo e minimalista con suo marito e tre gatti. Beve un sacco di tè, le piacciono i dolci italiani ma non il caffè, compra tutto su taobao tranne le tazze per il tè e si è portata dal Giappone un bellissimo servizio di piatti. Balla la zumba per tenersi in forma, viaggia poco perché non vuole lasciare soli i gatti, è sola tutto il giorno e durante il fine settimana non cucina mai.
Per questo esce spesso. Lei e suo marito vanno a cena fuori il sabato sera, e al brunch la domenica. Spulciano insieme le riviste per trovare eventi, spettacoli o ristoranti da provare, e ogni tanto me ne consiglia uno particolarmente buono o economico.
Suo marito le fa regali strani. Un puzzle, un libro (in cinese) su come abbinare il vino francese ai cibi cinesi, una torta fatta di asciugamani. Lei ride, lo prende in giro ma lo trova bellissimo.

Da qualche giorno Tamao e suo marito escono poco. Quando lo fanno, si vestono con vestiti cinesi, usano gli occhiali da sole e non frequentano i loro locali preferiti.
Perché i giapponesi sono diversi dai cinesi. I giapponesi sono più riservati, più eleganti, più puliti, meno casinisti. E un po' si distinguono anche per la fisionomia. E i cinesi li riconoscono.
E in questi giorni, a Shanghai, succedono delle cose.
I cinesi, che hanno vari motivi per essere scontenti, hanno trovato una scusa per sfogare il malcontento in maniera violenta, e lo fanno contro i giapponesi. Spaccano le vetrine dei negozi e delle catene giapponesi, distruggono macchine giapponesi, entrano nei compound alla ricerca di case abitate da giapponesi. La polizia interviene solo esteriormente. Fa presenza, insomma, mentre pare sostenere le manifestazioni.
Intanto, il governo giapponese sembra intenzionato a creare una rete di alleanze, e allo scopo pare disposto ad appianare le divergenze con la Corea.
E questo odio, questa inimicizia atavica mette un po' paura.

E io, che ho passato due giorni bellissimi a Monganshan, dove c'è un resort in mezzo al niente con una tinozza a fare da vasca da bagno, uno schermo gigante per vedere vecchi dvd e una parete piena di ciabattine per gli ospiti, dove c'è una foresta di bambù umida e nebbiosa e un lago artificiale in cui si può pescare, dove c'è un parco nazionale pieno di gradini e piccoli torrentelli, mappato così male che non riesci a trovare l'unica vera attrattiva, vale a dire la cascata; io, che avrei voluto restare là a camminare a piedi nudi nell'erba bagnata e a respirare la pioggia, a ridere e fare colazione con bacon e uova e pane tostato, a sentire sulla pelle l'aria fresca e silenziosa della mattina quando ancora tutti dormono; io, che stamattina cercavo le parole per raccontare a Tamao come sono stata bene in questi due giorni, per dirle del camino col fuoco acceso, del divano pieno di cuscini, della cena alle sei, degli scherzi e degli amici, e di un piumino caldissimo e leggero; io, stamattina, le parole non le ho trovate.

venerdì 21 settembre 2012

Di tagli e potature

I giardinieri del nostro compound sono personaggi bizzarri.
Durante l'estate mi hanno potato le rose brutalmente, vanificando il lavoro di mesi (insomma, lo so che crescono da sole, ma le avevo fatte arrampicare così bene...). 
La settimana scorsa due figuri si sono materializzati in giardino. Uno aveva una pala, uno un alberello.
Hanno piantato l'alberello in un posto qualsiasi.
Ora, non è che mi dispiacciano gli alberelli. 
Lo so, dovrei anche avere delle remore nel dare giudizi di merito, dato che il mio pollice è lontanissimo dall'essere verde, anzi direi che tende al rosa.
Però. Secondo me non è che puoi mettere un albero dove capita, e poi quello cresce e fa i fiori e magari anche le mandorle e lo scoiattolo che se le mangia. Di solito si cerca il posto giusto, si mette della terra buona, si guarda se deve stare al sole o all'ombra, gli si dà un po' di acqua, insomma quelle cose che un giardiniere dovrebbe sapere.
Ora l'alberello è defunto, o almeno sembra sulla buona strada.
Mi tocca tirarlo via. O tagliarlo alla base. Mica lo voglio, un alberello moribondo, che poi con me muore sicuro, e mi prendo pure la colpa.

Comunque, ho fatto dei cambiamenti.
La terrazza non c'entra niente, ché ancora non ho trovato qualcuno che mi vende delle canne di bambù di quattro metri e mezzo.
No, dico, nel paese del bambù, dove ci sono intere foreste di bambù e l'unico animale del mondo che vive solo di bambù, non dovrebbe essere difficile, no? E invece pare di sì. Ma io non demordo, troverò quella benedetta canna di quattro metri e mezzo, dovessi rubarla all'impalcatura del vicino.

Tenetevi forte. Anzi, sedetevi, che certe notizie vanno date davanti a un caffè.
Mi sono tagliata i capelli.
Vabbè, mica come l'AmicaBarbara eh.
Avevo una foto di un taglio che mi piaceva, l'ho portata al parrucchiere.
Che ho trovato questo parrucchiere che si chiama Bono, che già il nome è una garanzia, che ha studiato da Tony&Guy, parla inglese e francese e ha questo negozio piccolissimo in Wuding lu, proprio all'incrocio con Changde lu, pieno di foto di attori francesi e di cartoline vintage, dove non ti fanno massaggi né manicure e non ti puliscono manco le orecchie, dove sono tutti ragazzi, nel senso di maschi giovani che lavorano in silenzio ma col sorriso negli occhi, e insomma quel posto lì mi è piaciuto subito, e ho deciso che andrò sempre lì anche se devo fare quarantacinque minuti di metropolitana e poi quindici a piedi.

E insomma ho portato questa foto a Bono, un ragazzo alto, col pizzetto e la faccia tonda, i capelli rasati sulle tempie e un ciuffo sopra raccolto in una coda, gli occhi sottili e un cinturone porta attrezzi con spazzole, forbici e pinzettoni. Una specie di cowboy del capello, insomma.
Lui ha guardato la foto e ha detto Sono corti. Io ho detto Sì, vanno bene, puoi farli così? E lui ha detto Facile. Che qui son metodici. Tu gli porti una foto, e loro ti fanno uguale uguale, che son degli artisti, a copiare. Certe volte ti dicono No, non si può fare con questi capelli qui, vieni diversa. E tu lo sai già che vieni diversa, ma ti piace quel taglio là. Comunque a me non l'ha detto. A me ha detto Facile.
Se lo dici tu, ho pensato. Però ha detto anche Guarda che poi dopo non è mica facile da pettinare, a casa, non sei mica capace, da sola.
Vabbè, adesso stiamo qui a rompere il capello in quattro. Verrò qui, a farmi pettinare, dai.
E quindi adesso ho i capelli come quella foto là. Che poi è questa qui.
Però ecco, non è che sono proprio uguale. Solo i capelli.

mercoledì 19 settembre 2012

Un giorno qualunque

Guardo l'ora. Le 6 e 25.
Mi giro dall'altra parte.
Vorrei stare ancora un po' qui, con gli occhi chiusi, a sentire il silenzio della casa prima della sveglia.
Vorrei dimenticare tutto quello che devo fare oggi, i workshop, le lezioni, i compiti a casa.
Vorrei riprendere sonno, quel sonno leggero della mattina, quando senti tutti i rumori ma fai finta di niente, li lasci andare e ti fai cullare dall'ultimo brandello di sogno.
Vorrei svegliarmi che è domenica.
Vorrei che qualcuno avesse già preparato la colazione per me, e il profumo del caffè riempisse la stanza.
Vorrei scendere le scale in punta di piedi e sentire le bambine che in silenzio mi fanno una sorpresa, si nascondono sotto la tavola e ridono sottovoce.
Vorrei un bacio, il pane tostato con la nutella, merry you alla radio e l'atmosfera docile di un giorno di festa.

- Mamma, ma oggi andiamo a scuola? Andiamo a scuola lo stesso?
Certo Gatto, amore, sì. È un giorno come un altro. Ho solo un anno in più.

lunedì 17 settembre 2012

Va' che notizia. Le migliori selezionate per voi

I cinesi sono un popolo bislacco. E più sto qui, più me ne rendo conto, anche se non so abituarmi alle stranezze. Perché se non vi è bastata l'invenzione del facekini o la curiosa richiesta di una Banca sui generis, potete gustarvi altre brevi notizie folli.

I cinesi, per esempio, fanno sparire i politici caduti in disgrazia, mandandoli in vacanza terapeutica (suggerimento: in Cina diffidare sempre di chi vi spedisce al mare per questioni di salute). I più fortunati ricompaiono, prima o poi, ma non sono autorizzati a rilasciare spiegazioni di sorta.

Fanno corsi di mandarino alternativi, perché studiare una lingua ostica come il cinese riesce meglio se hai gli stimoli giusti. Vuoi mettere come memorizzi bene se la prof ti spiega come dire al tassista giri a destra e poi sempre dritto mentre è in lingerie sexy tutta piena di schiuma e si struscia sul cofano? Dite la verità. Sareste sempre con la macchina pulitissima.

Portano un pitone di tre metri e mezzo a fare un bagno nel laghetto di un parco pubblico, così la povera bestia si svaga e ha un po' di refrigerio dalla calura. Mica pensavo di fare notizia, ha detto il proprietario.

Portano i bambini delle elementari in gita al Museo del tabacco, che recentemente ha ricevuto il premio Patriotic Education Base. Infatti, come non pensare che le industrie del tabacco, che sponsorizzano il museo, non siano un esempio di eccellenza economica? E come non concordare sul fatto che se ci metti meno catrame, nelle sigarette, il rischio diminuisce? Che sia rischio cancro viene omesso. Perso tra i fumi delle sale.

Infine, una chicca.
Amici, non perdetevi il nuovo concept restaurant nella zona più turistica della città. Approda in TianziFang n. 5, lane 274, More than Toilet. Un nome, un programma. Voilà, ti siedi sul water, che già è una comodità, soprattutto se devi consultare lungamente il menù (personalmente non sono amante delle letture in bagno. Preferisco il divano. Ma una mia compagna di università ci studiava per gli esami, sicché devo risolvermi ad ammettere che per qualcuno risulta pratico). Poi ordini, e viene il bello.
Cibo a forma di stronzo in piatti a forma di cesso. Come resistere? Suvvia, non sarete di quelli che schifano la cacca? La fanno tutti, che sarà mai.
Al ristorante, incredibile dictu, c'è la fila. Ma non ditegli che siamo quello che mangiamo: potrebbero tirarvi un piatto in testa.

giovedì 13 settembre 2012

AAA Maschi giovani e sani cercansi, astenersi adolescenti

Ora, uno arrivato a una certa età non dovrebbe stupirsi più di niente. Nel senso, ci sono cose, eh.
E poi arrivano delle notizie. Delle notizie che stenti a crederci.

Tipo quella là che il tipo che ha ucciso 77 persone si farà 23 anni di carcere. 7 mesi per ogni morto, più o meno.

O tipo quella che hanno tolto i tour ad Armstrong. Mah.

O tipo quella lì che in Cina, il paese più popolato del mondo, quello che ha seri problemi di controllo delle nascite che neanche l'invenzione del facekini è riuscita ad arginare, quello dove puoi fare solo un figlio sennò devi pagare, o abortire, dove la pianificazione familiare nei supermercati ha più spazio dei detersivi, in Cina, proprio lì, cioè qui, c'è una Banca del Seme. Cioè uno di quegli istituti che aiutano le coppie sterili ad avere figli. Chi l'avrebbe mai detto. Grande eh. Ha delle filiali a Pechino, Shanghai e GuangZhou. 
 
No, dico, già questa cosa in sé è piuttosto curiosa, no? Tutti hanno diritto di avere un figlio.
 
Comunque, la notizia non è mica questa. La notizia è che siccome la Banca del seme è a corto di semi, cerca dei donatori
Mica gratis.
Giovani maschi di tutto il mondo, sappiate che verrete pagati per apportare il vostro contributo, diciamo così, e anche piuttosto bene.
Pare che uno ci si possa anche comprare casa, donando il meglio di sé.
È un business, pensateci. Altro che crisi. Vi conviene cambiare lavoro, va'.

L'età minima è 24 anni. Comprensibile. Metti caso che potessero donare anche i teenager, sai che casino. Montagne di semi. Se uno è disposto a vendersi un rene per comprarsi l'IPad, figuriamoci cosa succede se può farlo a suon di pippe. E va bene che si sono scoperti anche altri usi terapeutici (ci manca solo che si inventino un Gatorade a quel gusto là), ma in questo caso ci sono esigenze precise. E poi, suvvia, per seminare figli in giro per il mondo bisogna avere un minimo di consapevolezza.
Dispiace, ma c'è anche un'età massima. 45 anni. Non fate quella faccia, si era detto giovani. Dopo i 45 comincia anche per voi la china, mettetevela via.
Sì, sì, i figli a settant'anni, lo sappiamo. Ma voi non siete prediletti dal Signore come Abramo e qui non è previsto l'intervento divino che potenzia lo spermatozoo rachitico. 
Qui ci vuole gente fresca. Gente vitale, energica. Uomini veri, forti. Instancabili. 

E mica penserete che vi comprate la casa così, con un semino? 138 ce ne vogliono, di donazioni, solo per la caparra. 
Fatevi i conti.
E ricordatevi che son passati i tempi adolescenziali degli ormoni a palla.

martedì 11 settembre 2012

19 cose da fare un sabato a Shanghai

- Andare a un barbeque a casa di un ragazzo israeliano sposato con una sudafricana e avere un po' di invidia per la loro casa grande e luminosa e il loro giardino con l'erba verde.
- Restare mezz'ora con le bambine attaccate ai pantaloni.
- Guardare arrivare alla spicciolata gente italiana, tedesca, spagnola, israeliana, francese e scoprire di riconoscere con sconcertante facilità la nazionalità di ognuno dall'intonazione dell'inglese.
- Abbracciare degli amici che non vedevo da mesi.
- Mangiare humus e bruschette con i semi di sesamo e hamburger e salsiccia piccante, e prendere la birra da una vasca piena di ghiaccio e bottiglie.
- Pensare che in fondo avere due ayi che preparano il cibo lo portano fuori raccolgono i piatti li lavano portano bicchieri puliti a ciclo continuo è piuttosto comodo.
- Meravigliarsi di come la gente possa mangiare in continuazione, ininterrottamente, da mezzogiorno alle sei, passando con naturalezza dall'insalata ai biscotti, dalle salsicce alla macedonia, pasteggiando con vodka lemon e succo di lamponi.
- Avere la conferma di come sia facile separare gli uomini dalle donne per argomenti di conversazione, e trovare i primi a parlare di gite in bici e a fare brindisi con bottiglie di liquore di dubbia provenienza e le seconde a chiacchierare di pedicure, ricette e asili nido.
- Ritrovarsi a preferire la compagnia maschile a quella femminile, al solito, e sentirsi un po' fuori posto.
- Non vedere più in giro le bambine.
- Scoprire che esistono persone che non hanno mai visto un albero di cachi, e nemmeno uno di melagrane, e riflettere sul fatto che chissà quante piante io non ho mai visto.
- Restare un po' in disparte con un bicchiere in una mano e un piatto di insalata nell'altra, a guardare indisturbata le mises degli ospiti, e notare che tutti i ragazzi sono in jeans e tutte le ragazze portano bermuda e canotta tranne una supergnocca orientale dal nome impronunciabile (in tubino strettissimo blu cina) e la Wonder (in pantaloni di lino e maglia monospalla).
- Pensare che ci sono almeno due buoni motivi per sentirsi estranei a tutto questo, e non esserne dispiaciuti.

- Salire con due coppie di amici nella macchina sette posti, scoprire di sentirsi come nelle gite delle medie, e invidiare un po' quelli seduti nei sedili in fondo.
- Mangiare gamberi, patate e acciughe nel cortile dell'ElEfante, ristorante spagnolo cool e costoso di DongHu lu.
- Sentire delle gocce di pioggia e sperimentare l'inutilità degli ombrelloni durante il temporale.
- Terminare la cena in una sala interna fredda come una ghiacciaia, succhiando i gamberi della paella e mangiando i pezzi di frutta della sangria.

- Finire la serata nella sala di un karaoke, cantando a squarciagola Tell me quando quando quando, ascoltando l'amico Simo cantare alla perfezione Don't let the sun go down on me e intrattenerci meglio di Bonolis.
- Passare due giorni a canticchiare la stessa canzone, avendo in testa solo le note di Dancing Queen.

venerdì 7 settembre 2012

A spasso con Quentin, ovvero Di incauti acquisti

Ti va di venire con me al corean food store?, mi chiede MaxDad.
Perché no, penso io.

La prima volta che ho visto il MaxDad era agosto, c'erano trenta gradi (percepiti 42) e lui aveva una felpa col cappuccio tirato sulla testa, una ciotola di corn flakes in mano e ricorreva Max, quinquenne compagno di scuola della BB mezzo cinese mezzo americano, alla fermata del BusEnorme.
Piacere, gli ho detto, mi chiamo Wonder.
Io sono Kuangcheng, piacere, mi fa lui.
Hai un nome cinese, gli chiedo.
No no, è americano.
Ah, davvero? Pensavo...
Sarà, a me sembra cinese.

Poi ho capito. Cuencen in effetti è un nome americano. È scritto Quentin, per la cronaca.
Comunque io lo chiamo MaxDad. 
MaxDad, per chi non lo sapesse, è quel tipo là che fa il casalingo, ha una moglie cinese in carriera e quando viene a casa nostra non si schioda più, e devo fare le acrobazie per non tenermelo a cena. Comunque.
Il quartiere coreano si trova a tre chilometri dal nostro compound, più o meno, in direzione sud. In bici son dieci minuti lungo strade trafficate dove ci muoviamo in scioltezza come fossimo cinesi. L'unica differenza è che ci fermiamo se il semaforo è rosso.
Per verità di cronaca devo dire che ho iniziato io il MaxDad alla bicicletta, dato che lui è provvisto di autista e se ne serve con sconcertante inutilità. Quindi, dopo aver chiesto alla business wife il permesso di acquistarne una, ha ricevuto un budget di 20 yuan (25 euro, more or less), ha preso una orribile bici verdina (usata) a cui si bucano le ruote ogni due per tre, ha speso altri 50 yuan e ci ha messo un cestino davanti per la spesa e un seggiolino dietro per Max, in nulla dissimile dal cestino davanti se non per le imbottiture di gomma che ha fissato con lo spago. In confronto il mio è un cinque stelle.

Il quartiere coreano non è particolarmente chic. Ci sono ristoranti coreani, sale da tè coreane, centri benessere coreani, supermercati coreani e shopping mall coreani non molto dissimili da quelli cinesi. In effetti li distingui solo per le scritte in coreano. Però che scoperta! ci trovi anche le scarpe della mia misura. Devo tornarci senza il MaxDad, che in fatto di scarpe ha dei gusti piuttosto cinesi.
1004mart è il nome di una catena di supermercati (coreani, eh). La cosa che li distingue dai familymart cinesi è che dentro, udite udite, ci trovi prodotti coreani.
Molto meglio i prodotti coreani, sono più salutari, mi dice MaxDad. Non so, a me il kimchi non fa impazzire. Scaffalate di kimchi. Poi trovi anche la pasta Barilla, in un angolo. Pere che costano 25 yuan l'una. Riso nero, biscotti alle alghe, cialde a forma di pesce ripiene di salsa di fagioli, uova di quaglia. Quelle le prendo. Son già cotte, pure, guarda un po'. Ci faccio l'insalata di spinaci. Tè di frumento, bah. Latte di cocco, succo di banana. Bleah. Toh' guarda, c'è anche il succo di mirtillo, buono, pare faccia così bene, mica facile trovare il succo di mirtillo. Ne prendo due bottiglie, va'.
All'uscita c'è lo scaffale dei prodotti di bellezza. Mica le creme. Sono piegaciglia, ciglia finte di mille misure, pettinini per le sopracciglia, matite per le ciglia. Le cinesi fanno molto uso dei prodotti per ciglia, dato che ne sono praticamente sprovviste. Fanno impressione, le noti subito. Sai che faccio, me ne compro un paio pur'io, di ciglia finte. Son proprio curiosa. Voglio provare l'effetto dello sguardo che fa flap.

La cosa negativa dei prodotti coreani è che le etichette sono in coreano. Sai mica cosa compri, alle volte (non che sia molto diverso con i prodotti cinesi. Comunque).
Capita magari che compri delle cose che pensavi che fossero succo di mirtillo, e invece.
Tipo che ne versi un bicchiere, bevi un bel sorso che hai pure un po' di sete, dopo il giro in bici, e ti aspetti un sapore un po' dolciastro e un po' acido, e invece la gola va in fiamme. Brucia, proprio. Che un po' ci resti male, la verità (un po' come quando perdi il follower n. 93, per dire).
Lo so, avrei dovuto guardare meglio le figure. Ci sono, in piiiiiccolo, dietro, in basso, tre bicchieri (pieno, a metà, quasi vuoto). Cosa vorrà dire? Va diluito?
Ma poi, è una cosa che si beve, o serve per togliere il calcare?
Chissà cos'ho comprato.

mercoledì 5 settembre 2012

Pomeriggio a teatro (Homeworks sweet homeworks)

Atto primo
(Interno giorno. Rumori di giochi in sottofondo. La Wonder e Gatto al tavolo della cucina. Un quaderno aperto sulle parole a, and, for got, have, he, I, my)

- Guarda Gatto, devi leggere queste Camera Words e poi questo libretto qui.
- Ma non sono capace!
- Ti aiuto io, non preoccuparti. Cominciamo con queste words. Vedi? Ci sono le paroline, poi di fianco tre faccette sorridenti. Quando le sai leggere tutte, si mette un segno qui, sotto la faccetta che ride, e la maestra ti dà delle altre parole da leggere. Cominciamo?
- …
- Dai che sei brava. Allora, la prima è facile.
- …
- C'è una lettera sola, prova.
- A
- Sì, è la a, ma in inglese si legge ei. Prova a dirlo...?
- Ei
- bene. Facile no? Adesso leggi la seconda parolina
- Ei
- …
- …
- L'altra lettera è la n
- Enn
- Sì, e poi?
- Di
- Quindi?
- …
- And, si legge end.
- Ma non sono capace!
- Amore, stai tranquilla, un po' alla volta impari.
- (Vocina fuori campo) Mamma
- (Ignorando la Vocina) Non è difficile, devi solo concentrarti
- (Vocina fuori campo) Mamma! Eni chi!
- (Ignorando la Vocina) Dai riproviamo...
- (Vocina fuori campo) Mamma! Cappa cacca
- Gatto resta lì, torno subito

(La Wonder esce di scena. Gatto si intristisce sul quaderno. La Wonder rientra in scena)

- Non voglio fare questi compiti, non sono capace.
- Vuoi che prima leggiamo il libro? Guarda che poi dobbiamo farli lo stesso, questi compiti qua.
- … Sì.
- Va bene.

(La Wonder si spazientisce un po', ma non alza gli occhi al cielo. Va a prendere il libro – esce di scena. Voce fuori campo – minidialogo tra la Cosci, amica fidata nonché coscienza critica, e la Wonder, da due giorni e per il resto dell'anno scolastico in versione tutor dalle quindici e trenta alle diciotto).

- E meno male che hai studiato, Wonder. How to support your child's reading development during the first few years of schooling. Si vede che è un problema diffuso.
- Cosci, lascia perdere, non è il momento, non vedi che sono occupata?
- Tranquilla Wonder, sono io il tuo coach. Ripeti con me: Io, non, mi, arrabbierò. Io, non, mi, arrabbierò...


Atto secondo
(Interno giorno. Wonder e Gatto di nuovo al tavolo della cucina impegnate nell'estenuante tentativo di lettura. Entra la BB con due libri in mano)

- Allora Gatto, qui sulla copertina del libro c'è un bambino, con chi è?
- Mamma ho finito di leggere
- Va bene, tra poco ti sento. Lasciami adesso che sto facendo i compiti col Gatto. Con chi è quel bambino lì?
- Col suo papà
- Vado a fare Mathletics. Accendo io il computer, lo so fare.
- Col suo papà. In inglisc?
- Dad
- Bene. Infatti si intitola proprio Dad. Vedi? Di, ei, di: dad.
- (gridato fuori campo) Mamma!
- (sussurrato) Dad.
- Non aver paura, Gatto. Se sbagli non importa. Qui c'è una figura, un dad che sta facendo qualcosa. Cosa sta facendo secondo te?
- (gridato fuori campo) Mamma! Non funziona!
- (gridato in direzione delle scale) Adesso arrivo! (Rivolgendosi al Gatto, leggermente alterata) Allora, che fa?
- Sta pelando le carote.
- Sì, certo. Ma perché pela le carote?
- Le mette nella pentola
- Quindi?
- …
- Perché le mette nella pentola?
- Per mangiarle

- (Voce della Cosci fuori campo) Calma Wonder. Be quiet. Respira. Io, non, mi, arrabbierò. Ripeti.

(La Wonder raddrizza la schiena, muove lentamente la testa sentendo scrocchiare qualche osso e fa un bel respiro. Poi esce di scena. Rumore di passi sulle scale: la Wonder va a controllare la connessione internet per i compiti di Mathletics. Gatto si intristisce sulla pagina. La Wonder rientra in scena)

- Eccoci qua. Allora. Ci sono anche delle altre cose oltre alle carote, giusto?
- Sì
- Diciamo che sta cucinando, allora?
- …
- Come si dice cucinare in inglese? Lo sai come si dice, dai
- …

(Voce fuori campo – minidialogo un filino polemico tra la Cosci e la Wonder)
- Cosci, glie lo dico io altrimenti famo notte
- Aspetta Wonder, magari ci arriva da sola
- Mi sembra che la sopravvaluti
- …
- ...
- Ok, diglielo tu

- To cook, cucinare si dice cook, comincia come in italiano, senti: cuuuucinare cuuuchin. È facile da ricordare. Dad is cooking. È scritto qui, leggi con me. (Insieme) Dad, is, cooking. Brava. Voltiamo pagina. Qui cosa fa il papà?
- Legge un libro
- Bene. In inglisc?
- Luc... the..
- No amore, dad non look, dad legge. Come si dice leggere?
- (Gridato fuori campo) Mamma! Non capisco niente! Cosa devo fare?
- (Parlando verso le scale) BB, tesoro, prova a leggere
- (Gridato fuori campo) Non capisco!
- (Sbuffando) Arrivo, aspetta un momento per piacere. Dimmi Gatto, come si dice leggere?
- …
- Dai, Gatto, lo sai come si dice! Io leggo un libro, come lo dici?
- Ai rid e buc
- Bene, brava Gatto. Quindi dad...?
- Dad is riding
- (Gridato vagamente spazientito fuori campo) Maammaaa!
- (Ignorando la Voce) Benissimo. Molto bene. Vedi che sei brava? Giriamo pagina. Qui cosa fa dad?
- È in macchina
- Certo, e cosa fa in macchina?
- Guida
- Certo! E quindi dad is..?
- ...Guiding

(Rumore di braccia che cadono. Sguardo attonito della Wonder al pensiero che Homeworks sweet Homeworks. Commedia tragicomica in due atti resterà in cartellone tutti i giorni dal lunedì al venerdì per altri 183 giorni).
(Cala il sipario)

lunedì 3 settembre 2012

Scappo dalla città

È settembre, e il vento che muove le foglie non si appiccica più addosso con il suo fiato umido.
Ma la vita a Shanghai sa essere caotica, incalzante, nervosa. La gente ha fretta, suona, sgomita, strombazza, starnazza. Suda, sputa.
Ho voglia di quiete.

A Wuzhen, pittoresca città d'acqua divisa in due, l'atmosfera è rilassante. Sembra di entrare in uno di quegli acquarelli dipinti di nero e arancione, dove un pescatore tratteggiato con due pennellate lascia pendere la canna da pesca e resta fermo lì, ad aspettare, guardando muoversi nel canale le ombre squamose.
Wuzhen non è segnalata dalle mie guide. Eppure tra i cinesi è molto conosciuta, e il turismo non manca, per quanto sia quasi esclusivamente turismo cinese. È l'unica città d'acqua vista finora dove l'aspetto antico si mescola ai servizi più esclusivi. Alberghi con piscina, centri estetici, massaggi, spa inaspettate si nascondono dietro le stesse porte dove gli abitanti vivono come se il progresso non li avesse sfiorati, mentre i bagni pubblici sono dotati di lavandini di ceramica dipinta e rubinetti di bambù con fotocellula.
Il legno nero delle case, le finestre intagliate, i portali decorati si aprono su stralci di vita quotidiana. Una donna si lava i capelli in una bacinella. Prende l'acqua dal canale, insapona la testa, sciacqua. Un gruppo di uomini gioca a mahjong. Una vecchia prepara da mangiare armeggiando con vecchie pentole annerite. Un uomo scalda del riso soffiato in una rudimentale pentola a pressione.
Su una pertica di quindici metri un ragazzo fa acrobazie, il bambù si inarca e la bandiera rossa sulla cima sventola a ogni movimento.
A volte ho l'impressione che siano messi lì apposta, attrazione per turisti, ma non è così. La gente di Wuzhen vive come se il mondo intorno non esistesse. I vecchi se ne stanno sulle panchine a chiacchierare guardando le persone che passano. Uno ci prende in giro per i nostri nasi lunghi, ridendo con la sua bocca senza denti. Ci additano, ci guardano curiosi, si sporgono dalle finestre per guardarci passare, ripetono alle mie spalle la frase ormai nota, San ghe nu ar! (tre femmine!). Non vogliono farsi fotografare, e appena si vedono inquadrati si girano di scatto, si nascondono, si ritraggono dalle finestre. Ma poi si fermano a guardarci, con insistenza, senza imbarazzo, con un sorriso benevolo e stranito.
Nei loro negozi vendono ombrellini, ventagli, stoffe lunghissime blu e bianche, pennelli, sonagli di porcellana che dondolano dentro una finestra scura, vestiti, dolci di riso ripieni di crema di castagne, ravioli al vapore, cibo per i pesci che si ammassano sulla superficie, rotoli di bambù decorati, pettini di corno, coperte caldissime ma leggere come un soffio di vento.
Su tavolini quadrati e lisci, sotto un portico decorato, sono appoggiate ciotole d'acqua con un pennello, perché qui le frasi d'amore si scrivono sulla pietra ma si asciugano in fretta, e restano solo nel cuore degli amanti.

All'imbrunire i vicoli si riempiono di gente e di luci. Le lanterne spruzzano i canali di riflessi colorati. Guardo giù da un ponte. Il mare nero è mosso solo dal remo di una barca che solca lenta l'acqua stanca.

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