venerdì 30 dicembre 2011

Tre notti due giorni

Santa Sofia ci lascia senza fiato.
Non da fuori, dove i minareti la rendono troppo uguale a una moschea qualunque e i rifacimenti nascondono le forme originali della basilica.
Dentro.
Dentro è immensa, con cupole altissime dorate, enormi colonne, vetrate colorate. Però è un museo, e nonostante i mosaici, nonostante i capitelli di pietra scolpiti, nonostante la storia di intreccio tra cristianità e islamismo che racconta la strana miscela di iscrizioni latine e arabe, non c'è sacralità. La gente cammina, parla, ride, si siede, le guide accompagnano frotte di turisti che scattano foto. Un gatto si scalda alla luce della lampada che illumina il minbar. Colossali medaglioni campeggiano sulle colonne, ci sono incisi i nomi di Maometto e dei suoi successori, e nonostante vengano ritenuti una grandiosa opera calligrafica mi danno un'impressione di estraneità.
All'uscita, gli ambulanti vendono castagne e pannocchie e uomini con in mano dépliant vetusti elogiano strabilianti gite in barca sul Bosforo.
Il Gran Bazaar è un labirinto coloratissimo di piastrelle e di mercanti furbi, dove si trova tutto. Vuoi provare a dire una cosa? C'è. Gioielli? Ci sono. Tappeti, ceramiche, stoffe, lampade, dolci. Tabacchi? Ci sono. Spezie, cestini, pentole, frutta secca, frutta fresca, giacche di pelle, cappelli, tè, caffè. Scarpe, borse, profumi. Trottole, palle decorative, amache, calamite. Bar? A mucchi. Servono il tè in bicchieri trasparenti, un tè dal gusto denso, che scalda.
Due ragazze siedono nella saletta al primo piano, una porta il velo nero dalla testa ai piedi, ci dà le spalle mentre mangia un panino. Quando ce ne andiamo si rimette a posto il velo. Sto giusto pensando a cosa può spingere una ragazza giovane come lei a coprirsi in quel modo, che lei mi guarda con gli occhi neri che ridono e mi saluta con la mano. D'un tratto mi sento come se fossimo grandi amiche.

Scendiamo verso il porto, dove ci fermiamo a mangiare una zuppa calda e un kebab. La gente s'è messa in fila, una fila lunghissima, transennata, che fa il giro della piazza, per comprare i biglietti della lotteria. Quarantamila lire turche. Tralascio le considerazioni sull'entità della somma, ma non ho mai visto una tale paziente fiducia nella buona sorte.
Lungo il muro della Moschea Nuova ci facciamo pulire le scarpe da un ambulante, e con i piedi scintillanti attraversiamo il ponte di Galata, incredibilmente affollato di pescatori.
Il tragitto nel Tunel è brevissimo, in meno di due minuti arriviamo sulla sommità della collina. I ragazzini corrono dietro al tram e si aggrappano al predellino facendo la gara a chi resiste più a lungo.
C'è una strada piena di negozi di strumenti musicali, eccezionalmente specializzati: uno solo di chitarre, uno di piatti, uno di percussioni, uno di archi. Immagino d'estate un frastuono di musiche, ma oggi non si sente niente, son tutti rinchiusi nelle vetrine insonorizzate.
Dalla torre Galata vediamo la città, il ponte sul Bosforo, le moschee, il tramonto, rosso e giallo, e il vento è così gelido che non sento più le mani, ma restiamo lì, incastrati sulla cima, a goderci gli ultimi scampoli di vacanza.
È che di solito le agenzie propongono improbabili soggiorni che durano tre notti/cinque giorni, sei notti/nove giorni, che non sai dove vanno a finire quelle notti lì. Noi siamo gli unici a fare tre notti due giorni.

1 commento:

  1. Sì, tre notti due giorni sono veramente pochi per visitare Istanbul, ma sei riuscita in così poco tempo perfettamente a cogliere l'atmosfera del luogo. Anche questo come l'altro è un resoconto straordinario, complimenti!

    RispondiElimina